Contratto di coltivazione stagionale

Il contratto di coltivazione stagionale è spesso causa di problemi legati alla non corretta interpretazione dell’art.56 della legge 203/1982 che lo disciplina; per questo è opportuno fare chiarezza su cosa sia effettivamente la “coltivazione stagionale” e quando esattamente può essere applicato questo tipo di contratto.

L’art.56 della legge 203 del 1982 individua alcuni tipi di rapporto per i quali è esclusa l’applicazione della legge stessa, ed in particolare essi sono: i contratti di compartecipazione limitata a singole coltivazioni stagionali, le concessioni per coltivazioni intercalari e le vendite di erbe di durata inferiore ad un anno quando si tratta di terreni non destinati al pascolo permanente, ma soggetti a rotazione agraria.

In tutti questi casi dunque, è esclusa l’applicazione della legge 203, ed è conseguentemente esclusa anche la possibilità di deroga da parte delle organizzazioni sindacali.

Per meglio capire la situazione, è opportuno analizzare i tre casi prospettati nell’art.56 singolarmente, soprattutto per quanto attiene ai requisiti dei contratti.

Si prenda il primo caso: affinché si abbia la compartecipazione stagionale vi deve essere assolutamente, tra il proprietario del terreno dato a coltura ed il coltivatore, comunanza di rischi. E’ evidente che, se il terreno fosse concesso solo dietro il pagamento di una somma di denaro che in nessun caso dovrà essere restituita (neppure se, per esempio, il raccolto dovesse andare interamente perduto per eventi meteorologici avversi), ciò non porterebbe assolutamente ad una “comunanza di rischi” giacché il proprietario del fondo non correrebbe rischio alcuno.

Altre ipotesi presa in considerazione dall’art.56 è quella della coltivazione intercalare: essa si ha tra due coltivazioni principali e necessariamente si configura come “meno importante” tra le altre. Non potrebbe mai essere coltivazione intercalare, ad esempio, quella del grano duro: occupando il terreno da Ottobre ad Agosto, risulta evidente che il rimanente tempo a disposizione non permetterebbe di praticare una coltura più importante (al limite, nei mesi da agosto al termine dell’annata agraria, si potrebbe lasciar riposare il campo o far crescere erba).

La stessa inapplicabilità della legge viene prevista dall’ultima parte della norma per la vendita di erbe inferiore ad un anno ; è bene evidenziare che con l’espressione “vendita di erbe”, il legislatore non ha inteso riferirsi al contratto di vendita disciplinato dagli art.1470 e successivi del Codice Civile, quanto più ai contratti di utilizzazione delle erbe nei quali sia previsto il godimento del fondo come cosa produttiva. Laddove il fondo rappresenti solamente lo strumento per l’apprensione delle erbe, ricorre la vendita ex art.1470 e ss., mentre si ha vendita di erbe ex art.56 L.203 quando tali erbe siano, seppur minimamente, “coltivate” con l’intervento dell’agricoltore. Tale coltivazione e vendita, ai fini dell’applicabilità della disciplina dell’art.56, non dovrà superare il termine massimo di un anno e dovrà essere eseguita su terreni soggetti a rotazione agraria.

E’ bene ricordare nuovamente che, per i tipi di contratti presi in esame, non si applica la legge 203 con la conseguenza che non potrà essere concessa alcuna deroga e non sarà conseguentemente necessario il “visto” delle organizzazioni sindacali.

Un’ultima nota: se un proprietario terriero volesse concedere a coltivazione il proprio terreno per la sola durata di una coltura, disinteressandosi della gestione (quindi senza alcuna compartecipazione), potrebbe ricorrere ad un normale contratto di affitto di durata infra-annuale, da stipularsi (necessariamente) con l’assistenza delle organizzazioni sindacali di categoria.

(A.D. 2002)