La comunione tacita familiare
La Comunione Tacita Familiare è un istituto disciplinato negli “Usi”, richiamati dall’art.230 bis del codice civile, valevoli per il settore agricolo: essa si verifica allorché dei familiari o dei soci “mettono in comune” ciò che hanno, condividono la casa, la mensa, il lavoro nonché i guadagni e le perdite da esso derivanti.
“Anche in assenza di usi locali puo’ sussistere una comunione tacita familiare in agricoltura, quando in conformita’ all’uso generale i rapporti tra i membri della famiglia poggino sull'”affectio familiaris” al fine essenziale di conservare la reciproca assistenza economica e spirituale mediante il mantenimento in comune, non solo dei beni originari o sopravvenuti, ma anche del tetto, della mensa, del lavoro e degli interessi. Gli usi locali disciplinano gli aspetti concreti della comunione tacita familiare in agricoltura, quali le modalità di costituzione, i conferimenti ed i pascoli, lo scioglimento, i poteri dei singoli componenti, ecc. In assenza di usi locali sulle comunioni tacite familiari in agricoltura possono applicarsi, per analogia, le disposizioni sulla comunione ordinaria “ex” art. 1100 c.c., non essendo adattabili, per tal fine, alla comunione tacita familiare in agricoltura, le disposizioni sulla società semplice o sulla società di fatto, idonee a regolamentare le comunioni tacite familiari in settori diversi dall’agricoltura, quali il piccolo commercio e l’artigianato. “
Cassazione civile, sez. II, 14 gennaio 1980 n. 337
Non è necessario che di tale situazione sia data prova scritta o che venga formalizzata in alcun altro modo, essendo sufficiente che la comunione si verifichi “di fatto” e che, soprattutto, siano rispettate tutte le condizioni per la sua esistenza. Elemento caratterizzante, ma non necessario, di queste comunioni era il “capoccia”, ovverosia quel soggetto che si occupava di gestire in concreto gli affari e la vita della famiglia colonica: era una sorta di “rappresentante della famiglia”.
Per quanto attiene ai beni della famiglia colonica, gli usi valevoli nel settore agricolo in caso di comunione tacita familiare prevedono una disciplina assai articolata e peculiare, disponendo che tali beni, si distinguano in tre categorie: patrimonio vecchio, patrimonio nuovo e raccolte fatte o da farsi.
Il patrimonio vecchio è costituito dai beni antichi ed originali (ivi comprese le scorte vive e quelle morte) di coloro che formano la comunione, siano essi fratelli o soci, nonché dal complesso delle attività e passività ereditate dai genitori o soci premorti
Altro discorso invece per il patrimonio nuovo che è costituito “dall’aumento dei beni sul patrimonio vecchio, nessuno escluso, fatto dai soci con il proprio lavoro o con la propria industria, nel periodo in cui essi facevano parte della comunione”.
Sempre secondo gli usi, per quanto riguarda i beni mobili come ad esempio i nuovi arnesi rurali, che hanno progressivamente sostituito quelli vecchi, essi sono considerati come facenti parte del patrimonio vecchio e del patrimonio nuovo in equa proporzione.
Ai fini della determinazione dell’apporto dato alla creazione del patrimonio nuovo, è opportuno sottolineare che non tutti coloro che fanno parte della famiglia colonica sono automaticamente inseriti anche nella comunione tacita familiare: per farne parte devono sussistere i requisiti già visti prima quali la comunanza di lavoro, di mensa, di lucri e perdite. Nel caso che un socio o familiare vada a lavorare fuori dalla comunione, la regola generale prevede che egli venga immediatamente escluso e gli sia liquidata la quota; solo nell’ipotesi che egli versi l’intero stipendio alla comunione potrà, previo accordo di tutti gli altri soci, continuare a farne parte ed avrà conseguentemente diritto ad una parte sull’incremento di valore della azienda maturata durante la sua assenza. Non avrebbe diritto ad alcuna quota se invece che conferire l’intero stipendio dovesse corrispondere solo una quota pari al proprio mantenimento, essendo logico che in tal caso verrebbe meno lo spirito della norma in esame.
Volendo individuare materialmente i beni che fanno parte del patrimonio nuovo ci si troverà di fronte ad una difficoltà di non poco conto considerando che quest’ultimo non è dato da un insieme di beni singolarmente considerati, bensì da un incremento o, per usare le parole degli usi, “dall’aumento dei beni sul patrimonio vecchio”.
L’operazione che dovrà quindi essere effettuata per la esatta determinazione, consisterà in una sottrazione da effettuarsi tra il valore odierno dell’intero patrimonio ed il valore (rivalutato alla data odierna) del solo patrimonio vecchio: il quantum determinato dalla differenza tra i due, costituirà l’incremento di valore apportato dal lavoro di coloro i quali partecipavano alla comunione, ovverosia il “patrimonio nuovo”.
Un’ultima considerazione riguardo all’eventuale acquisto, fatto da uno dei soci o familiari facenti parte la comunione, di un fondo ad uso agricolo piuttosto che di un qualsiasi altro bene mobile od immobile; esso, come anche qualsiasi altro acquistato durante la comunione con beni personali, è di esclusiva proprietà del socio o familiare acquirente e non entra a far parte della comunione. Secondo il costante orientamento della Suprema Corte di Cassazione infatti,
“Sia per le comunioni tacite familiari, già contemplate dall’art. 2140 c.c., sia per l’impresa familiare disciplinata dall’art. 230 bis c.c. (introdotto dalla l. n. 151 del 1975, il cui art. 205 ha abrogato il citato art. 2140), non e’ configurabile alcuna presunzione che il denaro utilizzato per l’acquisto di un immobile compiuto da un partecipante in nome proprio ed in costanza di comunione provenga dagli utili tratti dall’attività’ economica comune, attesa la compatibilità del fondo comune costituito da detti utili con un patrimonio personale dei partecipanti. Ne consegue, che il coniuge che affermi il diritto di comproprietà su bene immobile intestato all’altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare – idoneo ad estendersi di diritto agli acquisti fatti da ciascun partecipante, senza bisogno di mandato degli altri, ne’ di successivo negozio di trasferimento – ha l’onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non puo’ essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonche’ di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali.
Cassazione civile sez. I, 30 agosto 1999, n. 9119
(A.D. 2002)